L’APPLICAZIONE DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE EX ART. 4, COMMA 1, D.L. 19/2020.
Analisi a prima lettura di alcune possibili problematiche operative
Di Antonio Faberi
1. Le novità introdotte dal D.L. 25 marzo 2020, n. 19 per la violazione delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria in atto.
Il D.L. 25 marzo 2020, n. 19, pubblicato il medesimo giorno ed entrato in vigore a partire dalle ore 00.00 del 26 marzo 2020, introduce alcune specifiche ipotesi di illecito amministrativo che vanno a sostituirsi ovvero ad aggiungersi al novero delle sanzioni già previste per chi non osservi le limitazioni alla libertà di circolazione, implementate nelle ultime tre settimane da autorità centrali e locali, per fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto.
In particolare, l’art. 4, comma 1 prevede che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità, di cui all’articolo 3, comma 3. Se il mancato rispetto delle predette misure avviene mediante l’utilizzo di un veicolo le sanzioni sono aumentate fino a un terzo.
Il comma 2 dispone che “nei casi di cui all’articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa), si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni”.
Il criterio di “adeguatezza” e “proporzionalità”, volutamente marcato già nell’art. 1, relativamente all’entità delle misure di contenimento, pare poter essere riferito anche alla gradualità delle sanzioni (vi sono specifiche ipotesi aggravate e pene accessorie), che vedono un apparente arretramento della soglia di rilevanza penale rispetto alle trasgressioni minori (con la depenalizzazione delle condotte di mera inosservanza dei divieti di circolazione per cittadini non soggetti a misure di quarantena per motivi sanitari, che non abbiano fornito valida giustificazione), da un lato, e l’inasprimento delle pene per le condotte più gravi, dall’altro.
L’ambito di applicazione delle sanzioni è stato già affrontato da altro contributo pubblicato dal Collega Francesco Mambrini su questo sito e, pertanto, si rimanda al relativo testo per gli opportuni approfondimenti (reperibile qui).
2. La successione di decreti nel tempo e le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del nuovo decreto.
Dall’intervento normativo emerge un possibile problema di successione di leggi punitive nel tempo.
A tal proposito, il comma 8 dell’art. 4 del testo in esame, introduce la seguente clausola “Le disposizioni del presente articolo che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ma in tali casi le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”.
Questa ultima formulazione – che sembra presa in prestito, almeno in parte, dal precedente art. 100 della L. n. 507 del 1999 (di analogo tenore l’art. 8, D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, rubricato “disposizioni in materia di depenalizzazione”) – mentre si preoccupa di dare un qualche coordinamento di tipo sostanziale, omette di disciplinare in maniera completa, al contrario del richiamato decreto sulla depenalizzazione, un coordinamento procedurale tra le procedure nuove e quelle già in corso. Su tali aspetti operativi ci si soffermerà in seguito.
Occorre prima riflettere su di un punto. Se da un lato, infatti, la depenalizzazione sottrae lo stigma sociale della condanna (l’illecito amministrativo non ‘sporca’ il casellario giudiziale), dall’altro, l’importo minimo e massimo della sanzione pecuniaria amministrativa risulta decisamente più elevato di quello previsto dall’art. 650 c.p. (reato che può essere estinto con oblazione facoltativa), e dunque, in verità, sembrerebbe che il legislatore dell’emergenza abbia realizzato in pochi giorni una tendenza che è ormai evidente nella legislazione punitiva.
Appare più efficace l’applicazione (più snella e più veloce) di una sanzione amministrativa pecuniaria, anche molto elevata nel suo importo, piuttosto che una sanzione penale minore, la cui applicazione, specie per le contravvenzioni, ha tempi e modi incompatibili con la soddisfazione delle esigenze in corso.
Peraltro, la contravvenzione prevista dall’art. 650 c.p., oltre a non avere efficacia, ha contribuito a sovraccaricare l’autorità giudiziaria in questo tragico momento, impedendole di focalizzare l’attenzione alla repressione di fatti più gravi, o comunque di portare avanti l’attività ordinaria e così smaltire l’arretrato. Se ne potrebbe trarre come lezione un interessante incentivo futuro ad una più incisiva depenalizzazione delle condotte meno gravi.
3. L’applicazione retroattiva della nuova sanzione amministrativa pecuniaria alle condotte antecedenti per le quali era prevista una sanzione penale.
Occorre ora chiedersi se l’applicazione retroattiva della nuova disciplina si ponga effettivamente in linea con il principio dell’applicazione della lex mitior, oppure no.
A colpo d’occhio, risulta evidente che il minimo della sanzione amministrativa pecuniaria, è più alto di quello massimo previsto per il reato di cui all’art. 650 c.p. (206 euro).
Tale criticità però sembra essere superata dal comma 8, laddove dispone che, per i fatti compiuti anteriormente, “le sanzioni amministrative sono applicate nella misura minima ridotta alla metà”. Dunque, la metà di quattrocento, ossia duecento, che è meno del massimo edittale previsto dall’art. 650 a titolo di pena pecuniaria.
In tali termini, non vi sarebbe dunque, in astratto, l’applicazione di una sanzione pecuniaria meno favorevole, anche se, occorre evidenziare che il reato in questione sarebbe stato oblabile, in concreto, con il pagamento di una somma pari alla metà del massimo della pena pecuniaria (euro 206) e quindi, con l’importo di 103 euro. La norma transitoria, sia pure coerente con l’intento di non applicare una sanzione astrattamente più grave a carico del trasgressore, non prevede una simile riduzione, e quindi la sua applicazione potrebbe rivelarsi, in concreto, più gravosa.
infatti, nel caso in cui il contravventore avesse già presentato istanza per l’oblazione prima del 26 marzo 2020, l’applicazione di una sanzione amministrativa di importo superiore a 103 euro, sembrerebbe non coerente con il principio appena descritto.
Atteso che la sorte dei procedimenti ancora non estinti per intervenuta oblazione (o per altra causa) sarà necessariamente il loro trasferimento all’autorità oggi competente, come verrà chiarito in seguito, ci si chiede se il cittadino possa mantenere l’aspettativa di estinguere l’illecito con tale importo.
Occorre evidenziare a tal proposito che l’oblazione applicabile all’art. 650 c.p. è quella facoltativa dell’art. 162-bis c.p. Pertanto, si tratta di una agevolazione azionabile previo positivo accoglimento del giudice. Non una trasformazione “immediata” dell’illecito penale in illecito amministrativo, attraverso il pagamento della somma prevista, bensì un provvedimento discrezionale (sia pure nei precisi limiti dell’art. 162-bis c.p.) che è consentito in assenza di determinate condizioni ostative (in particolare quando sussiste un comportamento recidivante o “quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore“) e dunque, quando il fatto sia privo di connotati di particolare gravità.
La mancanza di un’automaticità tra la presentazione dell’istanza di oblazione e il suo accoglimento, fa quindi arretrare la rilevanza del trattamento di maggior favore (che è solo ipotetico) ai soli casi in cui questa aspettativa si sia concretizzata nell’esercizio del relativo diritto e (aggiungo) abbia già acquisito un riconoscimento. Il problema, dunque, potrebbe assumere rilevanza concreta solo nel caso della positiva emissione di un provvedimento di ammissione all’oblazione, successivamente revocato per l’intervenuta depenalizzazione. È evidente altresì che, ove fosse intervenuto medio tempore il pagamento da parte del contravventore, il procedimento penale andrebbe comunque dichiarato estinto, e non si potrebbe procedere ad ulteriore procedimento sanzionatorio (v. infra, punto 6).
4. L’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività: possibili criticità.
Se è vero che l’approdo sopra descritto potrebbe giustificare la legittimità (con le precisazioni del caso) dell’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa pecuniaria, altrettanto non si può dire per le sanzioni accessorie, non previste per il reato ex art. 650 c.p., e invece applicate “nei casi di cui all’articolo 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa)”.
In questi casi, il decreto dispone che “si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni”.
Orbene, nei casi in esame la disposizione introduce una vera e propria sanzione che non può avere effetto retroattivo, pena la violazione dei principi generali in materia, cui non si può rinunciare nemmeno in una situazione emergenziale come quella in corso.
Anche a tacer d’ogni altro principio o regola costituzionale (oggi negletta in primo luogo dalla protratta assenza parlamentare di questi giorni) difatti, se la regola aurea è quella della proporzionalità ed adeguatezza, non bisogna dimenticare nemmeno che tutti gli interventi posti in essere in questi giorni sono nati non dall’esigenza di “punire”, bensì dall’esigenza di porre in essere tutte le condotte “necessarie” ed “urgenti” per contenere il diffondersi del contagio in questo periodo temporaneo. La misura repressiva si pone pur sempre in funzione ancillare alla proporzionalità e all’adeguatezza delle misure contenitive, che devono essere il centro focale dell’azione dello Stato in questi giorni.
Ciò posto, nessuna ragione cogente può giustificare l’applicazione retroattiva di una misura punitiva, sia essa penale o amministrativa, atteso che questa non sembra contemperare alcun interesse di rilievo costituzionale capace di superare il principio fondamentale di non retroattività della legge sfavorevole. Va evidenziato, infatti, che gli ultimi giorni hanno visto la progressiva chiusura di quasi tutte le filiere non ritenute essenziali dal Governo, e dunque, la chiusura cautelare, per tali attività, non avrebbe alcuna utilità rispetto alle esigenze eccezionali.
Le misure di contrasto all’apertura “clandestina” di alcuni esercizi commerciali, attività o imprese di cui è ordinata la sospensione, nonché le chiusure di quelli, pur legittimati all’esercizio, che tuttavia non abbiano osservato le prescrizioni di sicurezza per la loro regolare apertura sono sempre soggette al rispetto del criterio, anche e soprattutto in questo momento di caotica normazione, della irretroattività della legge punitiva, che postula la preesistenza del precetto e della sanzione rispetto alla sua applicazione.
La sincronia tra precetto e sanzione, presidio che è stato ritenuto nel corso della recente esperienza parlamentare anche un ostacolo all’inasprimento di alcune misure di politica criminale “ordinaria” (si pensi alla vicenda dell’applicazione retroattiva della c.d. “spazza-corrotti”), ma fortunatamente mai obliterato dalla giurisprudenza costituzionale – che anzi ne ha confermato recentemente l’estrema pregnanza anche in materia di sanzioni amministrative – rivela in questi giorni la sua intima essenza di regola di umana convivenza, ancora prima che di regola giuridica.
Prescindendo anche da una ricostruzione funditus della validità del principio di non retroattività, appare pertanto socialmente inutile oltreché iniquo applicare sanzioni retroattive in questo momento, o peggio, legittimare a posteriori provvedimenti già eseguiti ed evidentemente sprovvisti di idonea base legale.
Dunque, la lettura costituzionalmente orientata della norma, anche nel contesto del diritto dell’emergenza, impone di non applicare, almeno per i comportamenti posti in essere prima del 26 marzo 2020 già sanzionati ai sensi dell’art. 650 c.p., le sanzioni amministrative accessorie comminate dall’art. 4, comma 2, che potranno essere applicate solo a partire dal giorno 26 in poi. Vi è da essere sicuri che, senza addentrarsi in esegesi dei principi supremi scolpiti nella costituzione e nelle convenzioni dei diritti fondamentali, oggi, l’irretroattività della legge deve essere rispettata come facente parte del nocciolo duro delle garanzie che regolano il patto tra istituzioni e cittadini.
Ciò premesso, non vi è ragione di dubitare che sia questa la lettura voluta anche dal legislatore dell’emergenza, in ragione del rinvio alla Legge 24 novembre 1981, n. 689, il cui articolo 1, recita, per l’appunto “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”.
Va tuttavia specificato che la chiusura amministrativa era già prevista come sanzione dall’art. 15, D.L. 9 marzo 2020, n. 14, il quale, intervenendo sul Decreto Legge n. 6 del 2020 dispone che “all’articolo 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «salva l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi imposti dalle misure di cui al comma 1 a carico dei gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali è sanzionata altresì con la chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. La violazione è accertata ai sensi della Legge 24 novembre 1981, n. 689, e la sanzione è irrogata dal Prefetto».
Per tali fattispecie non vi sarebbe dunque violazione del principio di irretroattività nell’applicare la sanzione amministrativa accessoria, cui la nuova disciplina renderebbe semplicemente più accessibile il procedimento per la loro irrogazione.
In questi casi (ossia nell’interregno tra il 10 marzo ed il 25 marzo), tuttavia, la sanzione accessoria, ovvero la chiusura dell’esercizio, era individuata come unica sanzione (amministrativa) applicabile, atteso che l’art. 15 del D.L. n. 14 del 2020, non prevedeva sanzioni pecuniarie, ma solo la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni. Tale disposizione, peraltro, risulta abrogata dallo stesso D.L. n. 19 del 2020.
Essa faceva salva l’applicazione delle sanzioni penali nel caso in cui il fatto costituisse reato, situazione che rende non peregrina l’ipotesi di un potenziale e deliberato bis in idem. L’intervento razionalizzante del Decreto oggi in commento, tuttavia, non sembra risolvere il problema emerso con le fonti precedenti.
Dunque, formulando l’ipotesi, affatto improbabile, di un imprenditore che abbia subito l’accertamento amministrativo per la violazione dell’art. 3, comma 4, del D.L. 23 febbraio 2020 n. 6, e la denuncia per violazione dell’art. 650 c.p., non vi è una chiara disposizione che possa far emergere una conclusione univoca sulla continuità normativa tra la fattispecie punita con la sanzione amministrativa accessoria dell’illecito amministrativo ex art. 3, comma 4 D.L. n. 6 del 2020 e quella ex art. 4, commi 1, 2 e 4, D.L. n. 19 del 2020, in un unico provvedimento sanzionatorio.
Limitatamente alle condotte poste in essere dal 10 al 25 marzo, non è affatto chiaro se la sospensione accessoria debba essere applicata congiuntamente alla pena pecuniaria, anche in sostituzione delle contravvenzioni ex art. 650 c.p., successivamente depenalizzate, ovvero, se debbano disporsi due procedimenti separati e soprattutto se tale modus operandi, non si ponga in contrasto con il principio del ne bis in idem.
Difatti, come si è accennato in prime battute, la disposizione del comma 8, D.L. n. 19 del 2020 non prende compiutamente in considerazione tutte le ipotesi, diversamente dall’art. 100 della L. 507 del 1999, che invece, al comma 2 dispone che “a tali violazioni non si applicano, tuttavia, le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto legislativo, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie”.
Ammesso, in via di pura ipotesi, che tale principio abbia carattere generale e dunque che possa operare anche nel caso di specie, vi sarebbero due possibili conclusioni. Se la sanzione ex art. 3, comma 4, D.L. n. 6 del 2020 – oggi abrogata – si dovesse considerare “accessoria” del precedentemente contestato art. 650 c.p. (ipotesi ardita, in quanto si tratta di disposizioni sanzionatorie autonome, e non direttamente collegate l’una all’altra), sarà possibile riconoscere una continuità normativa e dunque applicare la sanzione della chiusura anche a condotte antecedenti al 26 marzo. Viceversa, preso atto dell’intervenuta abrogazione del predetto art. 3, comma 4, si dovrà disporre l’archiviazione di tutti i procedimenti avviati in base ad esso.
È pertanto auspicabile un intervento chiarificatore che consenta, nelle more della definizione dei procedimenti amministrativi tuttora in corso e soggetti alla disposizione dell’art. 103 del D.L. n. 17 del 2020 – che ne prevede la sospensione dei termini amministrativi – di evitare inutili duplicazioni procedimentali e al contempo precisare i limiti delle sanzioni accessorie applicabili alle condotte antecedenti.
5. La chiusura cautelare immediata dell’esercizio o attività ad opera dell’autorità procedente.
Potrebbero sorgere ulteriori interrogativi, inoltre, in ordine alla possibilità di applicare la chiusura cautelare a violazioni già accertate prima della entrata in vigore del D.L. n. 19 del 2020, ma in ordine alle quali non sia ancora intervenuto un provvedimento del Prefetto.
Versandosi nell’ipotesi di una misura cautelare, si presuppone la sussistenza di un pericolo di reiterazione (e quindi un’attualità della misura) che potrebbe non persistere. Ciò premesso, il presupposto della sua applicazione deve essere necessariamente valutato in concreto nel momento della sua esecuzione e sempre rispettando il divieto di retroattività sfavorevole.
L’uso della locuzione “può”, giustifica pertanto un’attenta valutazione da parte dell’autorità procedente, sulla sussistenza di un pericolo e dunque la necessità della misura “ove necessario per impedire la prosecuzione o la reiterazione della violazione”.
Merita poi una specifica riflessione l’individuazione “dell’autorità procedente”. Una corretta esegesi di tale locuzione è necessaria al fine di comprendere se essa corrisponda all’organo accertatore (l’agente di pubblica sicurezza) che esegue materialmente la chiusura, ovvero il Prefetto o altra autorità competente ad irrogare la sanzione definitiva.
La questione non è di poco conto, atteso che l’interpretazione può avere degli indubbi riflessi sull’immediatezza o meno della chiusura rispetto all’accertamento.
Nel lessico amministrativo, ma anche giudiziario, per autorità procedente si intende generalmente il soggetto competente a emettere il provvedimento finale relativo a una determinata fase procedimentale, argomento che propenderebbe a far pensare, quindi, che il provvedimento di sospensione debba essere disposto dal Prefetto o da altra Autorità legittimata (Presidente della Regione, Sindaco). Viceversa, il consentire direttamente all’accertatore della violazione di disporre la chiusura immediata cautelare sembrerebbe certamente soluzione più efficace per garantire e prevenire, nell’immediato, il pericolo di reiterazione.
Tuttavia, accedendo a tale interpretazione mancherebbe una corretta formazione della volontà dell’amministrazione, da un lato, non essendo prevista alcuna forma di convalida immediata da parte della prefettura o di altro soggetto legittimato a irrogare la sanzione, e dall’altro, essendo la procedura così delineata carente di spazi adeguati per un contraddittorio, anche in tempi rapidissimi, dell’interessato.
Egli infatti, a fronte di tale provvedimento, rimarrebbe scoperto dalla possibilità di una tutela giurisdizionale effettiva contro il provvedimento cautelare (tutela evidentemente impossibile al momento dell’opposizione, prevista ai sensi dell’art. 22, L. n. 689 del 1981, solo dopo l’emissione del provvedimento definitivo), né potrebbe formulare alcuna giustificazione a suo discarico.
Quale unica soluzione al fine di garantire un simulacro di tutela anche solo in via amministrativa, in via del tutto residuale ed ipotetica, rimarrebbe la possibilità di formulare una istanza di revoca in autotutela al Prefetto o all’autorità competente, sussistendone dei motivi.
Ma è evidente che nel limitato arco di tempo, da uno a cinque giorni (durata massima della sospensione cautelare), difficilmente qualunque istanza potrebbe ricevere la corretta attenzione.
In ogni caso, il Decreto dispone che questa sospensione, comunque sofferta, sia scomputata dall’entità della sanzione finale, al momento della sua esecuzione.
Dunque, l’esecuzione del provvedimento di sospensione avverrà all’esito del provvedimento definitivo.
Esso, si ribadisce, andrà a punire, probabilmente a cessata emergenza, attività di per sé lecite, ma solo per motivi contingenti vietate, con l’effetto di aggravare le conseguenze economiche dell’epidemia rispetto ai soggetti inadempienti.
È necessario perciò, anche in questo caso, che venga dato un chiarimento in ordine alla legittimazione a disporre i provvedimenti cautelari e alla loro procedura, e a garantire un sia pur minimo spazio di contraddittorio tra l’autorità ed il trasgressore (nei confronti del quale sarebbe forse opportuna una previa diffida, anche “ad horas” per l’adempimento spontaneo, prima di imporre la chiusura con strumenti coercitivi, ai sensi dell’art. 21-ter, L. n. 241 del 1990).
6. Il rapporto con l’autorità giudiziaria per l‘accertamento e la contestazione dei fatti di reato depenalizzati.
Quanto agli altri aspetti procedurali, assume carattere preminente il rinvio alla disciplina della Legge n. 689 del 1981, per quanto attiene alla fase dell’accertamento dell’illecito amministrativo, ed invece, per quanto attiene alla regolazione dei rapporti tra autorità penale e autorità amministrativa (per i fatti commessi in precedenza) alla Legge n. 507 del 1999, che prevede “procedimenti definiti con sentenza irrevocabile” (art. 101) e “trasmissione degli atti all’autorità amministrativa e procedimento sanzionatorio” (art. 102). In estrema sintesi, il rinvio – evidentemente di carattere materiale – a questa disciplina, consente la revoca dei provvedimenti emessi dall’autorità penale che dovessero essere già passati in giudicato (ipotesi poco rilevante nel caso concreto, visto il poco tempo trascorso dall’inizio dell’epidemia e soprattutto la sospensione dei termini), rispetto ai quali il giudice dell’esecuzione provvederà, ai sensi dell’art. 667, comma 4 c.p.p. a revocare la condanna.
Diversamente, per i processi pendenti ancora nella fase delle indagini preliminari, gli atti saranno trasmessi ad opera del P.M., salvo che il reato non sia già estinto per qualunque causa (ipotesi in cui il P.M. provvederà a richiedere l’archiviazione), ovvero dal giudice, nel caso di azione penale già esercitata. In questo secondo caso egli disporrà non procedersi, e trasmetterà gli atti all’autorità competente. A seguito di ciò, l’autorità amministrativa dovrà notificare la contestazione entro i termini ex art. 14, L. n. 689 del 1981 e il trasgressore avrà di conseguenza la facoltà di esercitare i connessi diritti, anche al fine di pagare in misura ridotta.